Nei giorni scorsi, un redattore di questo blog ha incontrato, in un bar, un amico di vecchia data che non vedeva da tempo. Un ragazzo al di fuori dei giri di movimento che ha però mostrato un certo interesse, e una certa sensibilità, per ciò che si muove all’interno e attorno ai Cpr, specie in quello di corso Brunelleschi. Ne è nata una discussione inattesa che ci sembra interessante riportare nei suoi tratti essenziali lasciando intatta la forma del dialogo, per quanto non sia possibile, evidentemente, riprodurla letteralmente.
Ho iniziato a tener d’occhio quello che accade nei Cpr solo di recente, quasi per caso. Mi era capitato di leggere un articolo su un quotidiano locale su una rivolta nel Centro di Torino, in cui ci si lamentava a gran voce delle violenze contro le forze dell’ordine e dei rischi che gli agenti correvano durante il servizio in queste strutture. Non una parola sulle condizioni in cui si trovavano le persone rinchiuse e sulle ragioni delle loro proteste. Sarà anche per i discorsi sugli immigrati che l’hanno fatta da padrona ultimamente, specie con Salvini, per i respingimenti in mare… ma la lettura di quell’articolo mi ha smosso qualcosa dentro e ho cercato di capirne qualcosa di più. Devo dire che fino a quel momento non sapevo neanche cosa fossero di preciso questi Centri.
Mi sembra che siano in tanti a non saperne granché, anche tra coloro che per il resto tentano di restare informati su quello che gli accade intorno. Una volta, un mio compagno mi ha raccontato che durante un processo in cui era coinvolto, e che non riguardava la lotta contro il Cpr, durante una testimonianza qualcuno ha fatto riferimento ai Cpr, non ricordo bene a quale proposito, e il giudice, senza alcun imbarazzo, ha chiesto «cosa sono questi Cpr?!?» Pensa tu…
Comunque, aneddoti a parte, di questi Centri e soprattutto di quello che accade al loro interno, non si può certo dire che si parli molto, ed è un fatto particolare soprattutto se si pensa che la loro storia ventennale è costellata da un numero enorme di rivolte, evasioni, scontri con le forze dell’ordine, danneggiamenti di vario tipo delle strutture e un ventaglio molto ampio poi, di episodi di resistenza di gruppo o individuali: da chi saliva sul tetto per evitare un espulsione, a chi “dava di matto” una volta caricato sull’aereo per costringere il comandante a farlo scendere, e poi ancora scioperi della fame, atti di autolesionismo etc. Si può dire che non ci sia quasi mai stata una situazione di pace sociale all’interno di questi Centri, sin da quando sono nati, ai tempi della Turco-Napolitano… Difficile trovare un ambito della società così conflittuale, specie in un periodo storico come questo, poi…
E al di fuori dei circuiti mainstream? La controinformazione e le iniziative di chi è solidale con i reclusi come vanno? C’è un coordinamento in città di vari gruppi che si occupano di Cpr?
A parte alcuni compagni che, da quando il Cpr si chiamava ancora Cpt, non hanno mai smesso di fare iniziative, tenere i contatti con i reclusi e far uscire all’esterno le informazioni su quello che accadeva “dentro”, anche tra i “giri” di movimento in città, tra i cosiddetti militanti, non è che ci sia stato un interesse così forte per quello che accadeva all’interno delle mura di corso Brunelleschi, soprattutto in rapporto, come dicevamo prima, a quello che sono riusciti a mettere in campo i reclusi. Ultimamente mi sembra però ci sia una certa attenzione. Mi capita di leggere di un maggior numero di iniziative e dibattiti sul Cpr anche da parte di gruppi diversi di solidali. Un coordinamento vero e proprio non c’è. E non è detto che sia auspicabile del resto, non è detto che l’incontrarsi periodicamente tra gruppi diversi per discutere e provare ad organizzarsi insieme funzioni e, soprattutto, sia il miglior modo per moltiplicare le forze contro questo Centro, il rischio è quello di finire a spendere parecchio tempo ed energie a discutere sulle differenze di vedute sui massimi sistemi, cosa anche interessante e importante per carità, ma che rischierebbe di impantanare la lotta contro il Cpr. Sarebbe già una cosa più che positiva se, al di là di coordinamenti formali, ci si sforzasse nei fatti di far convergere gli sforzi verso l’obiettivo comune, quello di smettere di lottare contro il Cpr, almeno a Torino.
Scusa ma non credo di seguirti…
Da quando sono state istituite, queste strutture sono state spesso e volentieri teatro di rivolte, come dicevamo, rivolte che attraverso gli incendi e i danneggiamenti delle aree ne hanno ridotto notevolmente la capienza o che li hanno fatti proprio chiudere del tutto. A Torino dove la capienza è di quasi 200 persone, in più di un’occasione il numero dei reclusi è sceso a circa una ventina. Altri Centri, come ti dicevo, sono invece stati chiusi completamente grazie alle rivolte: ad esempio quelli di Bologna, Modena, Crotone e Gradisca nel 2013 solo per citarne alcuni… Ecco, per quanto sia difficile, specie in un momento come questo in cui chi governa, governo gialloverde o giallorosso poco cambia, ha in cima alla propria agenda il contrasto all’immigrazione irregolare e l’apertura di altri Cpr, la possibilità di chiudere quello che è un vero e proprio monumento all’infamia di quest’epoca e con questo tentar di far uscire di strada la macchina delle espulsioni, continua ad esserci. Questo intendevo, a mo’ di battuta per “smettere di lottare contro il Cpr di Torino”, smettere perché il Cpr non c’è più. Essere solidali con chi lotta dentro non può che partire dal battersi per quest’obiettivo. Sono gli stessi reclusi a ricordarcelo a noi fuori, a parole e ancor più con quello che fanno. Se c’è stata una lotta radicale negli ultimi anni in questo pezzo di mondo, che è riuscita cioè ad andare alla radice dei problemi che hanno spinto le persone a battersi, senza voler avanzare alcuna richiesta di miglioria, questa è stata proprio la lotta contro la detenzione amministrativa.
Parlavi di quanto sia particolare questo momento anche riguardo le decisioni di chi è al governo, puoi spiegarmi più precisamente cosa bolle in pentola da questo punto di vista?
Mah, tanto per iniziare sta pian piano prendendo corpo il piano di aumentare il numero di Centri d’espulsione. Da qualche settimana ha riaperto il Cpr di Gradisca, da qualche giorno quello di Macomer e a breve dovrebbe riaprire quello di via Corelli a Milano. Ne dovrebbe aprire poi un altro a Modena, anche se non credo ci sia ancora una data precisa.
C’è poi da sottolineare come quello di Macomer sia un ex carcere, una struttura quindi con un grado di afflitività e sicurezza notevoli già nel progetto originario, nella stessa direzione vanno poi i lavori di ristrutturazione previsti nei Cpr di Caltanisetta e Palazzo San Gervasio a Potenza o le reti elettrificate in quello appena riaperto di Gradisca. Sembra abbastanza chiaro che si stia cercando di rendere questi Centri sempre più simili, come standard di sicurezza, a dei carceri. È da molti anni, del resto, che se ne parla, ricordo ad esempio un piano Cie che andava in questa direzione quando c’era Ministro degli Interni la Cancellieri, dopo le rivolte del 2013 di cui parlavamo prima… A queste misure vanno poi aggiunte le recenti dichiarazioni della Questura torinese in cui si dice che in seguito alle rivolte non faranno più uscire nessuno, come accadeva molte volte in passato quando i posti disponibili rimanevano pochi. Una decisione per tentare di scongiurare il pericolo di altre rivolte che nei fatti comporta un aumento del numero di espulsioni e un intensificarsi della violenza delle forze dell’ordine per far fronte all’inevitabile rabbia di chi, nei Cpr mezzi distrutti, è costretto a dormire e mangiare per terra o all’aperto. Una scelta politica che mette in conto anche di farci scappare il morto, come purtroppo è successo nelle ultime settimane prima a Caltanisetta e poi a Gradisca, dove un recluso è stato letteralmente ammazzato di botte dalla polizia…
Non avevo idea che le cose stessero così… Né, del resto, che più volte queste strutture siano state chiuse in seguito a delle rivolte. Mi sembra veramente incredibile. E pensare a tutti i discorsi contro gli immigrati che si sentono in giro, se piuttosto si prendesse ad esempio il loro coraggio e la loro determinazione anche in altri ambiti, invece che lamentarsi e scannarsi tra poveracci… Tornando a quello che dicevi e alla radicalità della lotta contro i Cpr portata avanti dai reclusi, mi sembra sensato quello che dici e credo sia una prospettiva condivisa da tutti i solidali, no? Per cos’altro battersi se non per la chiusura dei Cpr e contro quella che chiami macchina delle espulsioni?
Credo anch’io che la gran parte dei solidali condivida quest’obiettivo, esistono però delle esperienze che portano avanti un discorso diverso e a mio avviso pericoloso, specie se dovesse attecchire tra chi si batte contro i Cpr e, pensando magari in buona fede che più siamo meglio è, permettano a queste ipotesi politiche di fare breccia. Penso ad esempio a Lasciatecientrare, una campagna nata ormai diversi anni fa per permettere ai giornalisti di entrare nei Centri e garantire quindi una certa trasparenza all’interno, parola d’ordine cui si è aggiunta poi quella della chiusura degli stessi. Partiamo dalla questione della trasparenza, che richiederebbe almeno che i mezzi d’informazione in qualche modo cercassero di raccontare la verità e non servissero invece il padrone di turno, come ricordavi anche tu all’inizio, per cui in diverse occasioni le visite di giornalisti e politici all’interno dei Centri si sono risolte in visite guidate in cui chi era stato lasciato entrare si era accontentato di ciò che gli avevano lasciato vedere. E se torniamo agli articoli di questi giorni vien da chiedersi se sia poi auspicabile che la stampa mainstream parli dei Cpr, visto che, del tutto prona ai diktat della Questura non ha fatto altro che mostrificare i reclusi, dipingendoli come responsabili di violenze sessuali, anche su minori, o con simpatie per il terrorismo islamico. Guarda caso le due categorie che più suscitano paura e disprezzo…
Venendo poi all’altra parola d’ordine di questa campagna, il, diciamo, “fateli uscire”, i discorsi a riguardo sono eticamente inaccettabili. Basta fare qualche ricerca online per capire di cosa sto parlando e imbattersi in dichiarazioni in cui si chiede la chiusura dei Cpr ma si afferma anche che «vanno bene le espulsioni, laddove devono essere eseguite, ma questi centri devono essere trasparenti alla società civile, agli avvocati, ai giornalisti» o ci si arriva a lamentare che questi Centri «non sono efficaci alle espulsioni» lasciando intendere che altre dovrebbero essere le strade da intraprendere per far viaggiare a ritmi più spediti la macchina delle espulsioni. E sarebbe ingenuo pensare si possa trattare di sviste o del parere personale di qualche singolo attivista, queste ipotesi accompagnano l’intera storia di questa campagna, già nel 2013 in documenti più elaborati si può leggere della necessità di «razionalizzare le tipologie espulsive» o «incentivare forme di rimpatrio/rientro volontario» o ancora prevedere «identificazione e allontanamento delle persone pericolose». Insomma più che una svista si tratta di un modo di vedere il mondo, e questi soggetti vorrebbero un mondo in cui le espulsioni siano magari più selettive ma anche più efficaci. Una macchina delle espulsioni, per tornare all’immagine fin qui usata, magari un po’ più piccola ma decisamente più rapida. Nella stessa direzione vanno poi le ultime dichiarazioni del garante dei detenuti e di qualche politico locale pentastellato, nel chiedere infatti la chiusura del Cpr per le pessime condizioni di reclusione, arrivando a paragonarlo a uno zoo, non ci si dimentica mai di aggiungere «Questo luogo va chiuso e sostituito con uno spazio con altre caratteristiche» o «La speranza è che venga cambiata la modalità di trattenimento dei migranti». Si tratta dei classici tentativi sinistri di razionalizzare determinati strumenti repressivi, niente a che vedere con l’opporsi ai Centri e alle politiche d’espulsione. E non è certo casuale che parlando della chiusura di tanti Centri in seguito alle rivolte di cui discutevamo prima, piuttosto che attribuirne il merito ai reclusi, che sono poi anche quelli, non bisogna dimenticarlo mai, che dopo le rivolte ne pagano il prezzo in termini di pestaggi, incarcerazioni e anche, come dicevamo, con la vita, costoro abbiano avuto la faccia tosta di scrivere che “grazie anche alla continua pressione della campagna, da fine 2014 i tempi di trattenimento nei CIE sono passati da 18 a 3 mesi, ed i CIE attualmente operativi sono 7 al posto dei 13 del 2011”.
Buono a sapersi, probabilmente se ne avessi sentito parlare, avrei pensato che i promotori di questa campagna, magari in maniera più soft, privilegiando un sostegno pratico ai reclusi, che ne so portandogli coperte, cibo o fornendogli altri tipi di aiuto materiale, fossero comunque una parte di quell’insieme di gruppi che si mobilitano per la chiusura dei Cpr e contro le espulsioni. Non sono certo un esperto in materia, ma mi sembra di poter dire che il minimo che si debba pretendere da chi lotta contro questi orrori è quello di non voler collaborare in alcun modo con nuove forme, magari un po’ imbellettate, di politiche di discriminazione o oppressione di chi non possiede un documento valido in tasca. Soggetti come quelli di cui mi parlavi, mi sembrano invece gente che in qualche modo specula sulle disgrazie altrui, politicanti dell’antirazzismo.
Una definizione certamente forte la tua, ma che mi sembra abbastanza precisa. Riguardo la questione delle coperte e del cibo che hai appena citato, credo sia un aspetto su cui vale la pena soffermarsi perché mi è già capitato di sentirne parlare in termini a dir poco imprecisi. Per quella che è la mia modesta esperienza, ti posso dire che non c’è alcuna differenza né tantomeno contraddizione tra il tentare di sostenere da fuori con presidi, manifestazioni e anche iniziative più vivaci, la distruzione dei Cpr e portare ai reclusi un sostegno più pratico e materiale, portandogli magari del cibo, dei vestiti o delle coperte. Chi traccia, per una ragione o per un’altra, una netta distinzione tra i due tipi di iniziative a parer mio non ha una gran comprensione di come funzionino delle lotte. A parte il fatto, e lo si può raccontare perché la controparte se n’è purtroppo accorta, che delle banane oltre ad essere un alimento sicuramente più sano di quello che viene normalmente fornito ai reclusi, che spesso, non so se lo sai, viene “condito” con psicofarmaci per sedare l’insofferenza e la rabbia generali, delle banane, dicevo, possono anche contenere seghetti molto utili quando si è circondati da sbarre… Ma a parte questi aspetti comunque non secondari, portare delle coperte, dei vestiti o del cibo a chi è rinchiuso e si trova pertanto in una condizione di difficoltà materiale, è giusto, e rende anche più facile provare a protestare o alzare la testa. Se uno o più reclusi sono in sciopero della fame contro il cibo di merda e drogato che viene loro somministrato o se ci si trova, come sta accadendo anche ultimamente, a dormire per terra o al freddo dopo la distruzione delle aree, avere dei succhi di frutta, dei vestiti o delle coperte non può che dar forza e far sentire che chi lotta non è mai solo.
Mentre mi parlavi dell’importanza anche di un sostegno materiale, mi è tornato in mente un articolo che ho letto negli ultimi giorni riguardo le recenti rivolte a Torino e in altri Cpr che, secondo la polizia, avrebbero avuto una regia esterna, sarebbero cioè state dirette da alcuni anarchici. Per quanto, a naso, non mi torni un ragionamento di questo tipo, devo riconoscere che risulta comunque abbastanza suggestivo da lasciar pensare che qualcosa di vero ci sia in questa ipotesi.
Innanzitutto c’è da dire che almeno per il momento, l’ipotesi della regia esterna sia un’ottima scusa per sequestrare i telefoni dei reclusi. Lo hanno fatto a Torino e Gradisca dopo le ultime rivolte e lo avevano già fatto a Roma. Un buon modo per evitare che dai Centri continuino ad uscire notizie, immagini e filmati sulle condizioni che i reclusi sono costretti a subire. Una pubblicità che non deve aver fatto granchè piacere alle autorità, e non è detto, quindi, che continuando a parlare di questa regia esterna, non riescano a far diventare queste misure una norma, magari con qualche circolare ministeriale…
Più in generale, non si tratta di niente di particolarmente nuovo, è da quando esistono questi luoghi che la controparte avanza ipotesi di questo tipo riguardo le ragioni delle rivolte. Nell’ultima inchiesta che ha portato all’arresto di alcuni compagni per la lotta contro il Cpr, gli inquirenti arrivavano a sostenere che i pacchi di cibo e vestiti di cui parlavamo prima o le ricariche del cellulare che alle volte si facevano ad alcuni reclusi erano la merce di scambio attraverso cui gli anarchici convincevano, da fuori, i reclusi a ribellarsi. In una sorta di ricatto per cui se vuoi dei datteri, un maglione o 10 euro di ricarica, in cambio devi danneggiare qualcosa dentro il Centro o iniziare una qualche protesta.
Questa è veramente ridicola!!! Se non me lo stessi raccontando farei fatica a credere che un giudice possa credere a una scemenza simile, a ben pensarci mi sembra proprio il retaggio di un’ideologia coloniale in cui gli immigrati sono accomunati a delle bestie, a delle scimmie che per qualche nocciolina o spicciolo sono disposti ad assecondare i desideri dell’uomo bianco di turno.
Eh si… Più in generale credo si possa dire che sto tipo di discorso serva ad esorcizzare le ragioni e quindi la pericolosità della ribellione. Come se le ragioni delle rivolte non dipendessero dall’ingiustizia che chi si trova in un Cpr subisce e percepisce, ma andassero piuttosto ricercate nei loschi piani di qualche sovversivo. Intendiamoci, non che mi senta in alcun modo offeso dall’accusa di sobillare, non certamente ricattare, qualcuno perché si rivolti, anzi, a mo’ di battuta ti direi che non sarebbe poi male se bastasse qualche sobillatore per far scoppiar rivolte a destra e manca. Fuor di battuta, purtroppo per lorsignori le cose sono ben più complicate, se tutto dipendesse da noi fuori, basterebbe metterci tutti in galera, e ultimamente non stanno certo tergiversando da questo punto di vista, per ristabilire una certa pace sociale.
Noi di certo non ci tiriamo indietro e, per quanto vorremmo certamente riuscire a fare di più, per quelle che sono le nostre forze, capacità e possibilità cercheremo di continuare a metterci il nostro perché di quest’ordine fondato sull’ingiustizia non restino che macerie… Ma ciò che c’è di comune nelle rivolte dei Cpr non è certo una regia esterna, ma la rabbia per una vita in cattività. A questo proposito mi viene in mente un esempio che mi sembra calzante, e riguarda uno degli episodi più belli di questa lotta: in passato, non ricordo ora quale fosse allora il nome di questi luoghi infami se Cie o Cpt, ci è capitato di dare una mano a dei reclusi fuggiti dal Centro di corso Brunelleschi. Aiutarli a far perdere le loro tracce e evitare così di essere nuovamente acciuffati. Un aspetto assolutamente non secondario, fondamentale per non rendere vana la loro azione, ma non è stato certo questo sostegno a dargli il coraggio e la forza per scavalcare quelle maledette mura, a spingerli oltre il filo spinato è stato il desiderio di libertà. In fondo che a non capirlo, o far finta di ignorarlo, siano proprio alcuni dei principali nemici della libertà, non fa che confermarcelo.