La situazione detentiva all’interno dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio è insostenibile, come le persone recluse ci hanno continuato a raccontare più volte negli anni. Dalla loro istituzione non si sono mai spente le grida di protesta da dentro queste strutture e si sono susseguite le rivolte. La mano dello stato dentro questi lager non è mai stata morbida e le notizie di pestaggi da parte della polizia non sono un’eccezione. La pandemia da Covid-19 non ha fatto che inasprire ed esasperare le condizioni cui sono costrette le persone senza documenti dentro quelle mura.
È di questi giorni la notizia della “chiusura” dell’Ospedaletto, una delle sezioni del Centro suddivisa in piccole stanze singole che fungono da celle d’isolamento punitivo: il garante dei detenuti si è pavoneggiato di quella che ha avuto la faccia tosta di chiamare “positiva collaborazione” con il ministero dell’Interno. Il Garante Mauro Palma aveva fatto visita al Centro il 14 giugno scorso, dopo la morte di Moussa Balde proprio in una cella di isolamento, e successivamente aveva stilato un rapporto in cui parlava del “trattamento inumano e degradante” che ricevono le persone recluse all’interno dell’Ospedaletto.
Chiunque conosca anche solo superficialmente la realtà dei Centri però sa benissimo quanto quelle condizioni siano la norma. Le visite, i proclami e le denunce da parte di rappresentanti istituzionali e di Garanti arrivano sempre ed esclusivamente all’indomani di fatti tragici, nei Cpr così come nelle galere, come ci raccontano i fatti relativi alle rivolte nelle carceri dell’anno scorso. La morte di Moussa ha scatenato una compulsiva speculazione da parte delle autorità, dei giornali e delle istituzioni. Improvvisamente si sono avvicendate visite del Garante, inchieste giudiziarie, visite e dichiarazioni da parte di politici e onorevoli facenti parte di quegli stessi partiti di governo che hanno istituito e rinnovato i centri di detenzione amministrativa. Non è un caso che tra le denunce fatte da questi ultimi ci sia il fatto che non siano presenti le telecamere a controllare cosa succede là dentro. Come a dire che quel luogo non è abbastanza panottico, il problema è infatti la mancata sorveglianza. Succede poi che questi stessi rappresentanti e Garanti gioiscano e si dicano soddisfatti della decisione, presa dal Ministero dell’Interno, di accogliere la raccomandazione e di interdire l’utilizzo dell’Ospedaletto. Così ci si dà la pacca sulla spalla, ci si ripulisce la faccia e la coscienza, ci si compiace della propria sensibilità umanitaria. Quello che ci restituisce questa “vittoria” istituzionale è in prima battuta il fatto che le istituzioni statali festeggino loro stesse mentre denunciano che nei luoghi di detenzione dello Stato le persone recluse vengono torturate; in secondo luogo, che le situazioni drammatiche all’interno di queste strutture diventano vere e reali solo ed esclusivamente quando sono le istituzioni stesse a dare verità e realtà a queste situazioni. Non sarà la chiusura di una singola sezione del Cpr ad arginarne la violenza strutturale e sistemica. Le persone recluse lo sanno bene e da sempre si oppongono e lottano contro questo sistema detentivo.
Tant’è che proprio pochi giorni fa, il 10 settembre, all’interno del Cpr di corso Brunelleschi hanno dato vita ad una rivolta dando fuoco ai materassi e rendendo completamente inagibile l’area Rossa. Nel caso dell’altro giorno, come in mille altri, i ragazzi protestavano per il mancato intervento da parte del medico del centro nei confronti di un ragazzo che aveva tentato il suicidio. Il mattino seguente, la polizia ha picchiato i reclusi, portando via tre persone che sono state poi deportate in Nigeria. Contrariamente a quanto dicono i giornali nessuno di loro è stato visitato o portato in ospedale. L’area rossa è inagibile e i ragazzi rimasti sono stati spostati tutti quanti nell’area viola, dove non c’è acqua corrente nei bagni. Molti di loro hanno problemi fisici e di salute e come sempre accade non ricevono assistenza sanitaria se non la classica tachipirina.
L’ennesima storia di rivolta e di determinazione, perché l’unico modo per combattere contro questo sistema detentivo è quello di distruggerlo, di incendiarlo. Dalla loro istituzione nel 1998, infatti, sono sempre state le rivolte che hanno reso inagibili queste strutture, e che nel migliore dei casi le hanno fatte chiudere interamente. Nel 2009 il CIE di Pian del Lago in Sicilia, nel 2013 il CIE di Modena, lo stesso anno ad agosto il CIE di Sant’Anna di Capo Rizzuto vicino a Crotone, mentre a novembre il CIE di Gradisca d’Isonzo e, infine, il CPR di Trapani Milo a febbraio dell’anno scorso.