Riflessioni in vista della chiamata per un corteo nazionale il 2 Giugno a Torino

Il corteo del 2 Giugno prossimo è una prima risposta all’operazione repressiva denominata “City”, che ha colpito alcunx compagnx per i fatti del 4 Marzo di Torino. Pochi giorni prima di quella data, una sentenza della Corte di Cassazione aveva stabilito la permanenza in 41bis del nostro compagno Alfredo Cospito e pareva sancire la sua condanna a morte, dopo sei mesi di sciopero della fame. In quella giornata le strade della città sono state percorse dalla nostra rabbia e determinazione.

L’operazione della Procura di Torino aspira in modo evidente ad estendere il reato di devastazione e saccheggio a tutte le persone presenti, attraverso un implicito: “chiunque era lì, era complice!”. L’intenzione è chiaramente quella di dividere e scoraggiare la partecipazione a future iniziative di piazza che prevedano di mettere in campo quelle pratiche conflittuali, da sempre patrimonio del movimento, nel tentativo di neutralizzare ed impedire i momenti in cui rabbia, lotte e istanze sociali possono mescolarsi e rafforzarsi reciprocamente. Del resto, è risaputo che la repressione agisce anche cercando di spezzare i legami solidali tra le diverse sensibilità, in modo da disincentivare la partecipazione e isolare per meglio colpire. Rendere inoffensivi gli attivisti, scoraggiare gli indecisi, criminalizzare idee e pratiche di scontro con lo Stato e il Capitale: ecco la ricetta per disinnescare il potenziale conflitto sociale in un momento in cui le contraddizioni generate – crisi, guerre e devastazione ambientale – pongono il sistema in una palese condizione di precarietà.

Cucendo l’abito del nemico pubblico addosso a chi si oppone con determinazione e criminalizzando chi decide di non tacere, anche con questa azione repressiva si tenta di impedire la contaminazione tra varie modalità e istanze di lotta. Se, infatti, tra le cause dell’estendersi delle condizioni di oppressione c’è anche la nostra attuale incapacità di mettere in campo rapporti di forza favorevoli, è vitale per l’apparato poliziesco e repressivo inasprire l’attacco generalizzato alle classi approfittando della loro frammentazione e dei conseguenti  antagonismi, con il fine di mantenere l’attuale sistema di sfruttamento e disciplinamento totale.

L’intenzione di questa chiamata per una piazza nazionale a Torino, proprio il giorno della “Festa della Repubblica”, è quella di rilanciare un momento di strada che materializzi il senso del corteo di un anno fa ed una risposta alla repressione che lo ha seguito, nello stesso contesto in cui il corteo si è dato e la repressione sta provando a colpire più duramente.

Vogliamo che questo corteo sia inquadrato nella complessità di una società stretta e pervasa dalla morsa di una retorica bellica, che, mentre normalizza un genocidio algoritmo mandandolo in mondo visione, produce un discorso martellante sul nemico interno identificato, non solo in chi lotta, disobbedisce e diserta, ma anche in coloro che abitano le oppressioni strutturali del capitalismo odierno. Un contesto nel quale la detenzione amministrativa e penale si inseriscono come tassello culmine del disciplinamento e diventano l’unico orizzonte di chi non può, o non vuole, sottostare a imposizioni sempre più stringenti.

Il sistema punitivo statale italiano vede la sua massima espressione nel regime di 41bis e nell’ergastolo ostativo, ma la macchina repressiva e detentiva si articola in forme molteplici, più o meno subdole, con identico fine persecutorio; di recente abbiamo potuto constatare, ad esempio, come i CPR si pongano alla confluenza di molte tipologie di oppressione: usati come monito per le persone libere, come minaccia nei contesti di sfruttamento lavorativo e ricatto in quelli di lotta. Questi luoghi, per eccellenza, di invisibilizzazione della violenza e dell’oppressione di Stato, mostrano continuamente quante forme possa assumere la brutalità del potere. Quando tale brutalità viene sconfitta, non lo si deve certo al riformismo dei commissariamenti della magistratura e delle preghiere istituzionali (talvolta avanzate da chi quei luoghi ha contribuito ad istituirli), bensì, sempre, alle rivolte e al fuoco di chi si ribella.

Con questo spirito e questa consapevolezza siamo sces* più volte in strada e lo abbiamo fatto anche il 4 Marzo. Se quelle giornate sono riuscite a rompere il muro di silenzio costruito intorno al circuito della cosiddetta tortura “bianca” in Italia e a mettere in evidenza come e quanto i tribunali applichino la vendetta dello Stato contro i suoi nemici interni – al di là di ogni fantasticheria sul diritto – lo sappiamo che la partita è ancora aperta. Non solo perché questo regime carcerario di tortura si palesa come strumento nelle mani della DNAA (Direzione Nazionale Antimafia-Antiterrorismo) come modello di repressione a monito di tutt* i e le rivoltos*, ma anche perché questo regime è un dispositivo di guerra, sarà ancora molto utile, contro il nemico interno, in questi tempi di guerra.

Negli ultimi due anni la guerra guerreggiata è arrivata alle porte. Dalle periferie del mondo occidentale è dilagata avvicinandosi sempre di più alla “fortezza Europa”. Il controllo sui territori è diventato sempre più serrato. Militari e guardie pattugliano ogni angolo. Chi vive e attraversa i quartieri interessati da questa incessante militarizzazione vede materializzarsi sempre di più il rischio di finire dentro una galera o un CPR.

Ma quando inizia la guerra?

Chi decide quando questa comincia?

Inizia veramente, nel caso europeo, fuori dai confini dell’Unione?

Oppure è la stessa organizzazione sociale, anche in tempi descritti “di pace”, a incarnarla e riprodurla, alternandone momenti più o meno feroci?

L’Italia e l’UE si trovano di fatto in guerra. Da un lato, sostengono il settore militare israeliano, come dimostrano i dati relativi all’invio di armi e munizioni verso Israele dell’ultimo trimestre 2023 – un valore pari a 2,1 milioni di euro. Dall’altro, fin dai primi giorni del genocidio in Palestina, l’Italia ha trasformato la stazione aeronavale di Sigonella in Sicilia in una base di appoggio per gli aerei spia e per quelli che trasportano armi, ma ha anche trasferito diverse unità navali nel mare di fronte a Gaza. Dal 5 Marzo 2024, inoltre, ha ufficialmente preso parte alla missione “Aspides” nel Mar Rosso, a difesa del commercio internazionale, contro i ribelli Houthi e le azioni di sabotaggio da questi messe in campo contro le navi israeliane a sostegno della resistenza a Gaza.

I media nostrani hanno invece costruito l’idea della prossimità bellica, datandola con l’azione russa in Ucraina del Febbraio 2022 e fissando il suo allargamento a partire dalla responsabilità di Hamas (e indirettamente dell’Iran) del 7 Ottobre 2023. Una ricostruzione non solo faziosa e che si limita a scaricare le responsabilità belliche su una controparte, retorica scontata da parte di ogni Stato, ma inaccettabile perché mette in campo l’idea che tutto si giochi su un piano meramente geopolitico. Se, invece, vogliamo ravvisare un periodo in cui alcune istanze della società-guerra si sono violentemente palesate, al punto da poter essere considerate antefatti di questo ultimo biennio, dobbiamo tornare agli attentati parigini del 13 Novembre 2015 che hanno portato in Francia, e in tutta l’Europa occidentale, un susseguirsi di normative sull’ordine pubblico che hanno segnato un punto di svolta nella militarizzazione interna e nelle politiche di controllo sociale.

Ci pare evidente che non esiste una anormalità, da un lato, che considera la guerra come eccezione, e una normalità, dall’altro, che invece si identifica nella politica. Non è facile capire cosa sia realmente la guerra oggi, visto il proliferare nel nuovo millennio di nomenclature come “guerra ibrida”, “guerra infinita”, “guerra mondiale a pezzi”, ma quello che possiamo affermare con certezza è che siamo entrati in un periodo in cui si va ben oltre la militarizzazione degli spazi pubblici, fisici e simbolici che siano.

L’economia di guerra e il richiamo alle esigenze di arruolamento paventati senza mezzi termini dai governanti, il potenziamento del riarmo industriale, la stretta su qualunque tipo di opposizione, la censura attraverso i mezzi di comunicazione tradizionali e social, evidenziano il processo di mobilitazione delle società verso la guerra che gli Stati europei hanno innescato come ormai unico mezzo per dirimere il ginepraio delle politiche neoliberali, la corsa all’accaparramento delle risorse naturali e la gestione degli esseri umani considerati mera eccedenza, anche all’interno del territorio UE.

Se questo è quanto sta succedendo in Europa, quello che succede nell’altrove guerreggiato ci parla di centinaia di migliaia di morti, di persone mandate al macello sull’altare del profitto e dell’accaparramento. La guerra là è più feroce, senza limiti, ma ha gli stessi scopi di quella, qua, non guerreggiata.

La guerra asimmetrica che lo Stato di Israele sta conducendo dal 7 Ottobre contro Gaza ne è summa ed esempio: la migliore democrazia in tempi bellici, un modello per gli altri Stati. In un contributo fra high tech e sterminio, rimozione della memoria e costruzione di una sempre nuova narrazione della storia, laboratorio a cielo aperto di meccanismi sociali. Lo Stato di Israele rappresenta sicuramente la migliore risposta alle necessità di una società in guerra. Proprio partendo dal modello perfetto di Israele e delle resistenza palestinese, possiamo iniziare a pensare che questo sistema possa essere disarticolato. Israele per continuare a mantenersi in vita ha bisogno di spietate complicità e collaborazioni che attraversano il capitale in ogni sua forma: luoghi di lavoro, della cultura e della formazione. Le atrocità che stanno avvenendo a Gaza sono possibili grazie al contesto geopolitico strutturato dall’Occidente fin dall’avvento degli stati-nazione: secoli di colonialismo di insediamento, accordi e collaborazioni occidentali che hanno permesso il massacro di chi in quei territori ha sempre vissuto.

Un esempio per tutti sono le università, che rappresentano uno strumento di normalizzazione, legittimazione e complicità rispetto al genocidio in corso a Gaza, oltre che del colonialismo di insediamento e della pulizia etnica perpetrata da Israele ai danni del popolo palestinese da più di 75 anni. Attraverso accordi e partnership, vengono sviluppate tecnologie belliche e securocratiche che prima vengono testate sulla pelle del popolo palestinese e poi riversate sul mercato globale, per essere usate contro il nemico interno ed esterno. Attraverso accordi e collaborazioni con le università, aziende del settore bellico come Leonardo, Thales-Alenia o Elbit, si stanno espandendo, generando nuovo profitto dall’utilizzo di infrastrutture pubbliche e conoscenze del mondo universitario. Ostacolare il loro ingresso e la loro normalizzazione contrattuale significa opporsi alla militarizzazione sempre più pervasiva della nostra società e può proporsi come una delle modalità effettive di resistenza alla guerra totale che questo sistema genera e alimenta.

Per mettere in atto questa resistenza e perché sia possibile condurla ancora a lungo, per affrontare la lotta contro la generale oppressione di classe e razza, di cui la repressione rappresenta un aspetto, bisogna costruire forme di solidarietà più larghe e durature possibili intorno a chi viene colpit*.

Le lotte e le ribellioni che si danno dentro le prigioni a cielo aperto e in quelle chiuse dal cemento delle mura di cinta sono una testimonianza importante che, non solo rivela le efferatezze degli Stati e la brutalità della violenza che riescono a mettere in campo, ma rilancia il coraggio di chi, dalla stretta asfissiante e totalizzante della morsa del potere, ricorda alle persone libere la forza della rivolta.

Per la creazione di complicità tra chi viene colpit* dalla violenza di Stato e Capitale.

Per rivendicare la presenza auto-organizzata in strada.

Per ribadire che la risposta alla repressione è continuare la lotta!