La prima di una serie puntate di Harraga (trasmissione in onda su Radio Blackout ogni venerdi dalle 15 alle 16) in cui proviamo a tracciare un fil rouge, che dalla Palestina riporti alle logiche e alle dinamiche coloniali occidentali nei nostri contesti, che sfruttano e opprimono, tanto in Palestina quanto in Italia, le persone razzializzate.
L’obiettivo non sta tanto nel definire somiglianze e divergenze nelle forme di repressione ed oppressione, al di qua e al di là del Mediterraneo, ma sviluppare terreni di lotta comuni capaci di tenere insieme le lotte: non solo nella teoria politica, ma a partire proprio dalla materialità con cui si manifestano. Partiamo quindi dalla detenzione amministrativa e dai CPR, forma di repressione e segregazione in Palestina di larghissimo utilizzo da parte dell’entità sionista e tassello chiave della catena del razzismo di stato qui in Italia.
La fase di mobilitazioni in solidarietà al popolo palestinese che abbiamo attraversato negli ultimi mesi, ha rappresentato un salto di qualità rispetto a quanto messo in campo in Occidente negli ultimi decenni. Dallo slogan “blocchiamo tutto”, le mobilitazioni hanno raggiunto non solo la comprensione ma soprattutto la presa di responsabilità chiara e collettiva che ciò che produciamo qui sui luoghi di lavoro, nelle scuole o nelle università, è complice e materialmente responsabile del genocidio e dell’oppressione sistemica del popolo palestinese. Ma non solo, la consapevolezza che inizia a radicarsi anche nella fetta più ampia del movimento ProPal, è che la Palestina non rappresenta solo se stessa ma tutte le lotte e le rivendicazioni anticoloniali e antirazziste, sia negli obiettivi della lotta di liberazione e autodeterminazione che nelle forme in cui essa si concretizza.
Siamo quindi partite dal delineare in cosa consiste la detenzione amministrativa in Palestina, la genealogia della sua nascita e le fluttuazioni storiche del suo utilizzo, per poi provare a tracciare le analogie negli obiettivi di questo strumento di repressione in Italia come in Palestina. In primo luogo come monito ai liberi: in Palestina, per esempio, è prassi che l’esercito sionista arresti i familiari dei combattenti per convincerli a desistere dalla lotta. D’altra parte in Italia le torture e le deportazioni sono quantitativamente minori in relazione al numero di persone sprovviste del permesso di soggiorno, ma sono funzionali al terrorizzare tuttx le/gli altrx tentando, con l’uso della paura su larga scala, di renderli docili. Altrettanto chiara è, in entrambi i contesti, l’obiettivo di creare profitto dal razzismo. Dall’evidente guadagno di aziende private sui corpi delle persone recluse nei CPR, alla possibilità di sfruttare manodopera a bassissimo costo tramite il meccanismo del ricatto del permesso di soggiorno. Fino ad arrivare in Palestina dove l’intera società può essere definita una società carceraria, dove genocidio, pulizia etnica e incarcerazioni di masse generano profitto come laboratorio sperimentale di armi e sistemi di sicurezza di ogni tipo.
Se è vero, come dicono in molti, che Israele fa e ha fatto per anni il lavoro sporco dell’Occidente, spingendo sempre più in là l’asticella del livello di violenza e repressione accettabili dalla “democratica società civile”, dall’invenzione da parte delle IOF della dottrina della spoporzionalità del 2006 alle violenze indicibili commesse dall’esercito sionista dal 7 ottobre a Gaza, ai trattamenti deumanizzanti che, se fino a ieri sarebbero stati impensabili, oggi sono fin normalizzati dalle popolazioni occidentali. E’ anche vero che in Europa la sperimentazione di livelli di violenza, controllo e repressione si attua sempre sulle vite delle persone migranti che fungono, in tale quadro, anche da banco di prova per estendere i limiti dell’umanamente accettabile, nonché per normalizzare forme di tortura sia fisica che psicologica.
Dall’altro lato, va ricordato che Israele è un prodotto dell’Occidente e pertanto necessita della continua legittimazione ideologica razzista ed islamofoba occidentale che si manifesta con la narrazione della “minaccia islamica”, usata a scopo propagandisco dai governi occidentali e non solo, per giustificare un discorso sulla “sicurezza”, sul riarmo e sul controllo delle frontiere.
Di tutto questo ne abbiamo parlato proprio nel giorni di apertura della settimana di mobilitazione per i prigionieri palestinesi. Sempre al fianco delle 3368 persone imprigionate in detenzione amministrative nelle carceri sioniste; con Anan, Ali e Mansour imprigionati in Italia per conto dello stato sionista; con chi si trova reclusə per aver lottato al fianco della Palestina e contro le complicità di aziende belliche occidentali, con Tarek e con Prisoners4Palestine e Stecco, in sciopero della fame da più di sette giorni. Libertà per tuttx!