Si esternalizzane le frontiere. Si esternalizzano le prigioni.
Via gli immigrati, via gli indesiderati. Quelli che non servono al sistema, gli “inutili”, i dannati della terra. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Differenziare, selezionare, punire. Questa é la politica danese, in linea con quella europea. Ma che ora ha fatto un passo in avanti.
La Danimarca apre una “colonia penale” in Kosovo. 300 posti per migranti, o meglio, immigrati condannati per aver commesso un reato in Danimarca, a partire dal primo semestre del 2023. Questo il risultato dell’accordo stipulato mercoledì 27 aprile 2022 tra Copenhagen e Pristina al quale i governi dei due paesi lavoravano da mesi (una prima intesa era stata firmata a dicembre 2021). 15 milioni di euro l’anno, per 5 anni, rinnovabile per 10 anni. Più 5 milioni di euro previ per la sistemazione delle strutture detentive kosovare. E 6 milioni di investimenti nella cosiddetta “transizione ecologica”
Dopo la legge del 2021 sull’esternalizzazione delle domande di asilo, che cerca ora un’ attuazione con il Ruanda, ecco il patto per esternalizzare la detenzione degli immigrati. La differenziazione nella differenziazione, la selezione e esclusione nei già esclusi. Dividere anche i detenuti sulla base della nazionalità e del foglio di carta che hanno o non hanno.
Nella retorica danese, le motivazioni sono il sovraffollamento delle prigioni e una diminuzione di guardie; dal 2015 la popolazione carceraria è cresciuta del 19%, passando da 3.400 a 4.200, mentre il numero degli “agenti di custodia” – gli sbirri – è sceso da 2.500 a 2.000. Il governo conta di riformare l’intero sistema carcerario e per questo ha stanziato 6 miliardi di corone, pari a circa 538 milioni di euro. Ma non solo. «La Danimarca sta inviando un segnale chiaro anche agli stranieri condannati alla deportazione: il tuo futuro non risiede in Danimarca e quindi non sconterai qui nemmeno la tua pena» ha spiegato nelle scorse settimane Nick Haekkerup, fino a poche settimane fa ministro della Giustizia danese. La volontà é sempre la stessa, da anni a questa parte: disincentivare i migranti ad andare in Danimarca, e punire in modo “esemplare” coloro che già ci sono. Ancora di più coloro che hanno osato opporsi alla legge danese.
«Uno dei vantaggi di tale misura è che (i prigionieri) non dovranno essere risocializzati per tornare nella società, perché non dovranno trovarsi in Danimarca in seguito. Pertanto, possiamo comodamente spostare l’intero gruppo in modo che servano in un altro posto», ha detto alla radio danese Hækkerup.
Lo “schema” danese è chiarissimo e viene messo in pratica da diversi anni (nel 2018 il precedente governo aveva pensato di confinare i detenuti sull’isola disabitata di Lindholm, una specie di Alcatraz scandinava: progetto poi cancellato “per i costi eccessivi”).
Tra il 2020 e la metà del 2021 la Danimarca ha revocato, o non rinnovato, il permesso di soggiorno a circa 400 rifugiati siriani, arrivando a sostenere che: «La guerra civile in Siria è ormai alle fasi finale e Damasco è un luogo sicuro».
Il numero di rifugiati in cerca di asilo in Danimarca è sceso costantemente negli ultimi anni (dalle oltre 11mila richieste nel 2015 si è passati alle 342 del primo semestre del 2021) e proprio per il “successo” della strategia si continua a rendere la vita difficile e scomoda per gli immigrati, con leggi ad hoc. Come quella votata lo scorso settembre, per obbligare i migranti a lavorare almeno 37 ore la settimana se vogliono continuare a beneficiare dei sussidi statali. La norma dev’essere ancora approvata dal Parlamento. O come la legge, approvata nel 2016 che autorizzava la confisca di gioielli e beni superiori alle 10mila corone (1350 euro) dei migranti, per coprire le spese di accoglienza.
Le prigioni ci fanno schifo, di qualsiasi stato e bandiera appartengano, sia chiaro.
Però ci teniamo a sottolineare la violenza di mandare a migliaia di chilometri di distanza da amici, famigliari, compagnx, i detenuti che saranno toccati da questo patto d’intesa.
La prigione scelta é Gjilan, a circa 50 km da Pristina. Una nowhere land, dove i detenuti non avranno possibilità di avere colloqui con un difensore di loro fiducia, senza più contatti con le famiglie e gli amici – che avranno giusto “qualche difficoltà” ad andare a trovare i famigliari a migliaia di km di distanza – senza sapere manco bene quali regole, se kosovare o danesi, verranno applicate alla galera, senza neppure sapere in quale lingua potranno rivolgersi alle guardie e al personale del carcere.
Il Kosovo, dal canto suo, è ben contento degli investimenti e dei soldi danesi, oltre che considera l’accordo una buona presentazione di “partner affidabile” ai paesi UE, data la sua ambizione a entrare nell’Ue.
Altri esempi di esternalizzazione di galere
Un accordo simile (a parte la distinzione tra detenuti immigrati e non) venne stipulato tra il Belgio ed i Paesi Bassi nel 2010 al fine di consentire al primo di utilizzare una prigione in territorio olandese, a circa trenta chilometri dal confine tra i due Stati, per far fronte ad una situazione di sovraffollamento terminata poi nel 2016, con l’entrata in funzione di nuovi istituti in Belgio. Tutta l’operazione avvenne sotto l’egida del Consiglio d’Europa e del CPT.
Un altro accordo temporaneo era stato raggiunto tra Norvegia e Paesi bassi nel 2015 con la messa a disposizione di una prigione sita in Olanda, anche in questo caso per far fronte temporaneo sovraffollamento: nel 2018 la locazione è terminata ed i detenuti sono stati riportati in strutture in Norvegia.
Ora siamo all’unione dell’esternalizzazione di frontiere e galere.
In questo periodo di covid, di guerra, di depressione economica e terrorismo mediatico costante, i vari governi stanno approvando leggi e legittimando dinamiche prima quasi impensabili, da cui non torneremo indietro. Queste pratiche di esternalizzazione che stanno avanzando velocemente sono solo un tassello di una dinamica più grande e molto pericolosa contro cui dovremmo iniziare concretamente a organizzarci.
Contro ogni galera, contro ogni frontiera!